Venture Capital: Israele si afferma come “il Paese degli unicorni”
Un confronto con Jonathan Pacifici, General Partner di Sixth Millennium VP e Wadi Ventures
Il Venture Capital: caratteristiche
È ormai in crescita esponenziale un segmento del mercato degli investimenti alternativi i cui operatori, i cosiddetti “Venture Capital Fund”, si sono specializzati negli investimenti in start-up. I Venture Capital sono fondi che investono in capitale di rischio di start-up o aziende che si trovano nella loro fase di vita iniziale e presentano un modello di business non ancora consolidato. Questi, tendono a subentrare nell’azienda acquistando una quota di minoranza. L’orizzonte temporale di investimento è compreso in media tra i 5 e i 10 anni e hanno un IRR compreso tra il 30-50%. La maggior parte delle start-up in cui investono è caratterizzata da un’elevata probabilità di fallimento (circa tre quarti di esse non superano il primo anno di vita). Tuttavia, gli introiti che gli investitori ricevono dalle start-up di successo, sono sufficienti a coprire le perdite subite dalle imprese fallite in cui avevano investito.
I Fondi di Venture Capital non investono direttamente le proprie risorse finanziarie, ma piuttosto ciò che raccolgono dai fondi istituzionali quali banche, assicurazioni, enti previdenziali, ecc. Il loro scopo è quello di realizzare un guadagno laddove le altre istituzioni non investono a causa del rischio elevato di fallimento.
A differenza degli investitori formali come banche o privati, il rapporto tra Venture Capital e start-up non è meramente economico e limitato alla risoluzione del credito-debito. Il Venture Capital, infatti, al pari dei business angel, entra direttamente nella gestione e nelle decisioni della start-up come proprietario, per assicurare il raggiungimento degli obiettivi proposti. Il contributo, quindi, sia di tipo economico che strategico, grazie all'esperienza accumulata durante una carriera in precedenti progetti di investimento.
Alla fine del percorso, quando l’azienda è solida e presenta buoni livelli di crescita, è in grado di proseguire autonomamente specialmente grazie ad un valore di mercato tale da garantire un buon margine rispetto all’investimento iniziale. A questo punto, il Venture Capitalist effettua l’exit vendendo le proprie quote a un acquirente industriale o finanziario e reinveste parte degli utili in nuove start-up da consolidare.
Venture Capital nel mondo e i record made in Israele
Il mercato del Venture Capital ha ormai raggiunto dimensioni ragguardevoli. A livello globale, nel 2021 gli investimenti in Venture Capital hanno sorpassato $600 miliardi, in aumento rispetto all’anno precedente, ottenuto grazie ad un’ottima performance su tutte le aree geografiche.
In particolare, risultati sorprendenti sono stati ottenuti in Israele. Le imprese fintech Israeliane nel 2021 hanno raccolto $2,6 miliardi in investimenti di capitale di rischio. Tale somma rappresenta un incremento del 146% rispetto al capitale raccolto nel 2020, con un numero di round in aumento del 28%. Oggi Israele, grazie agli ingenti risultati raggiunti, è soprannominata “il Paese degli unicorni”, soprannome utilizzato per indicare imprese innovative non quotate che presentano un enterprise value di almeno $1 miliardo. Nel 2020, 15 imprese israeliane hanno raggiunto questo traguardo, e aggiunte alle 30 già presenti rappresentano il 10% degli “unicorni” a livello globale.
Questo trend è stato riconfermato nei primi mesi del 2021: ben 6 start-up hanno ottenuto finanziamenti per un totale di $1,44 miliardi, una cifra che, raccolta in un solo mese da un Paese che conta appena 9 milioni di abitanti, fa segnare un nuovo record senza precedenti.
Un confronto con USA e Italia
USA
Gli Stati Uniti rappresentano il più grande mercato di Venture Capital a livello mondiale. Nel Q2 del 2021, gli investimenti in Venture Capital in USA hanno raggiunto un altro record in termini di valore totale di deal effettuati, superando la cifra raggiunta nel quarter precedente. In particolare, sono stati investiti $75 miliardi attraverso 3296 deal, la cui dimensione media di Series D+ supera i $100 milioni.
Secondo i trend legati agli USA, gli investimenti in Venture Capital viaggeranno ad altissimi livelli anche nei quarter successivi, in particolare in settori come il fintech, l’automotive e l’intelligenza artificiale. Date le problematiche identificate in ambito supply chain globale a seguito del blocco della nave Evergreen nel canale di Suez, potrebbe crescere un interesse da parte degli investitori anche per quanto riguarda soluzioni logistiche innovative. Inoltre, è prevista una crescita degli investimenti in agritech e foodtech, in particolare per quanto riguarda innovazioni su packaging e delivery.
È importante ricordare che le IPO negli Stati Uniti hanno continuato a raggiungere nuovi picchi: sono sempre di più le aziende che si preparano alla quotazione sul mercato pubblico.
E' stato osservato che le valutazioni negli Stati Uniti e il capitale proveniente da svariate fonti continua ad essere in crescita. Ciò permette una grande flessibilità per le aziende che maturano, ad esempio, la capacità di effettuare un later-stage round e ritardare la potenziale IPO.
Da sottolineare inoltre la sempre maggiore attenzione da parte di investitori di VC nei confronti della produzione legata ai veicoli elettrici: ad esempio, è di grande interesse lo sviluppo di soluzioni di carica che permettono ai veicoli di essere ricaricati mentre i proprietari sono a lavoro o nei supermercati.
ITALIA
L’Italia si sta dirigendo verso un traguardo senza precedenti: per il 2021 l’obiettivo è quello di raggiungere il miliardo. L’unico problema resta legato alle dimensioni degli investimenti in VC negli altri Paesi europei (si pensi che la Francia ha chiuso l’anno precedente toccando la soglia dei due miliardi di Euro).
Secondo l'AIFI, gli investimenti in innovazione sono aumentati in modo ragguardevole, anche per via della pandemia. L’hi-tech, il digital e l'healthcare sono i settori in cui i Venture Capital stanno investendo di maggiormente. L'Italia segue questo trend, seppur a livelli più bassi rispetto ad altri Paesi, ma a livello di variazioni percentuali i tassi non sono poi così lontani rispetto ad altre nazioni europee. E' stato stimato infatti che nel 2021 l'Italia dovrebbe raggiungere la soglia del miliardo di Euro, più del rispetto al 2020. E' importante pertanto sviluppare apposite politiche che incentivano questa tipologia di investimenti.
L’affermarsi di Israele come il Paese degli unicorni: la visione di Jonathan Pacifici
Il nuovo modello economico che Israele presenta è quello della cosiddetta “economia della conoscenza”. Ritiene che questo nuovo paradigma offra al paese un vantaggio competitivo duraturo? Basarsi esclusivamente sul settore dei servizi è il punto di partenza per costituire un’economia resiliente agli shock esogeni (e.g. crisi della supply-chain)?
È una formula che ha funzionato molto bene in Israele, facendo emergere il paese in maniera strabiliante negli ultimi venti anni. Chiaramente non è detto che sia una ricetta adatta ovunque. Ci sono paesi nei quali il peso del comparto industriale resterà significativo. Eppure, è ormai chiaro che la tecnologia, il sapere ed in generale quello che chiamiamo “knowledge economy” sarà sempre più un generatore di valore e quindi di ricchezza. Un esempio: le 85 società israeliane quotate a Wall Street - quasi tutte società tech - hanno raggiunto una capitalizzazione di $300 miliardi. Secondo il quotidiano Calcalist ci sono circa 200,000 famiglie di dipendenti di società tech che detengono azioni ed opzioni per circa $35 miliardi. Questa ricchezza evidentemente entra in circolazione poi nel paese e spiega il boom edilizio (assieme al forte tasso di natalità) e quello dei consumi in generale. Uno dei grandi benefici di questa impostazione economica è la flessibilità che, come abbiamo imparato negli ultimi due anni, è fondamentale per superare le crisi.
Israele rappresenta un mercato di forte interesse per le imprese che operano nei settori del life science e dell'ICT. In che modo le amministrazioni hanno favorito lo sviluppo di queste competenze? Ritiene possa essere un modello replicabile e sviluppabile in altre aree?
In Israele, come negli Stati Uniti ed in altri hub, il peso dello Stato nella crescita del settore tech è marginale. Certo, lo Stato fornisce un framework con delle regole chiare, una fiscalità (quasi) sostenibile e contribuisce con un sistema scolastico, universitario e militare di assoluta eccellenza. In alcune fasi lo Stato è stato fondamentale per attrarre investimenti attraverso sconti fiscali (come nel caso di Intel) o altre agevolazioni (il caso del fondo Yozma). Detto questo il merito del fenomeno startup nation è tutto degli imprenditori e dell’ecosistema finanziario, tecnologico, e professionale che li circonda. Sono gli imprenditori, con la loro capacità di creare valore e ricchezza che hanno costruito il modello. Le amministrazioni oggi cavalcano un maggiore gettito fiscale e fanno un discreto lavoro nel migliorare ciò che loro compete: le infrastrutture ed il framework giuridico e fiscale.
Qual è il ruolo dei capitali terzi nello sviluppo delle infrastrutture e delle aziende israeliane? Vi è un grande influsso di capitale finanziario all’interno del Paese? Con quali modalità stanno avvenendo questi investimenti e chi sono i principali finanziatori dello sviluppo economico del Paese?
Il comparto tech è alimentato dal mondo del Venture Capital. Oggi Israele è uno degli snodi mondiali di questo settore. Sono presenti tutti i grandi nomi del pianeta, in primis i fondi americani che sono qui con veicoli dedicati, uffici ed ‘antenne’. Questi affiancano molti fondi israeliani che però a loro volta hanno LPs (investitori) soprattutto stranieri: istituzionali, family office e HNWI. Negli ultimi anni è incrementata molto la presenza asiatica con investimenti cinesi, spesso più focalizzati al comparto industriale ed alle infrastrutture. L’Europa in generale (l’Italia in particolare) è fortemente sottorappresentata.
L’anno nero della pandemia ha segnato un record di investimenti nell’hi-tech israeliano, con un incremento del oltre 20% rispetto al 2019, sorprendente se paragonato a quello degli Stati Uniti (5%) e dell’Europa (1%). In che modo Israel Innovation Authority ha contribuito a questo successo? Ritiene che nel 2021 il mercato VC israeliano manterrà questo trend di crescita?
È vero, il 2020 si è chiuso con poco più i 10 miliardi di investimenti in tech con un incremento di circa il 20%. Non solo il trend prosegue, ma anzi accelera. Il 2021 ha visto una raccolta di $ 12 miliardi nel primo semestre, proiettando il mercato verso il raddoppio.
Gli artefici di questo successo, di nuovo, non sono i burocrati dell’Innovation Authority, che per altro a causa del prolungarsi della crisi di governo solo recentemente conclusa, sono stati per due anni nell’incertezza generata dalla mancata approvazione della finanziaria. La crescita degli investimenti, piuttosto, va di pari passo con il successo delle società e la realizzazione di exit straordinari - tra cui decine di nuovi “unicorni” - che hanno alimentato l’appetito degli investitori. Nel nostro piccolo devo dire che stiamo notando in questo senso un forte incremento di interesse verso il nostro nuovo veicolo, Sixth Millennium Venture Partners, anche sull’onda del successo dei nostri precedenti investimenti.
Le informazioni contenuto nel seguente documento non costituiscono sollecitazione al pubblico risparmio e non sono volte a promuovere alcuna forma di investimento o commercio, né a promuovere o collocare strumenti finanziari o servizi di investimento o prodotti/servizi bancari/finanziari
Arte: pleasure asset e tokenizzazione
Un confronto con Niccolò Filippo Veneri Savoia, Founder e CEO di Look Lateral
Arte come forma di investimento alternativo
All’interno della categoria più generale degli investimenti alternativi e, in particolare dei Real Assets, troviamo la sottocategoria dei “Passion Investments”. Questa tipologia di investimenti riguarda oggetti verso cui molti investitori, oltre ad aspettative di rendimento, nutrono un particolare interesse personale, come per esempio automobili, orologi, vini e, appunto, opere d’arte.
Il mercato dell’arte è cambiato molto nell’ultimo ventennio. In particolare, l’avvento di Internet e del canale online ha dato un nuovo impulso alle aste di settore, che hanno raggiunto valutazioni record grazie alla maggior visibilità. Questo trend è stato esacerbato nel 2020, anno nel quale, per via della pandemia, le aste da remoto sono diventate forzatamente la nuova norma. Christie’s, Sotheby’s, Phillips e tutte le maggiori case d’asta hanno conosciuto una crescita a tre cifre del fatturato derivante da vendite online, allargando la partecipazione a numero maggiore di persone da più Paesi. In particolare, Christie’s ha consentito un’asta contemporanea su 4 piazze diverse: Hong Kong, New York, Parigi e Londra. Sotheby’s invece ha dismesso la produzione di cataloghi fisici e implementato tecnologie di tour virtuali in 3D per visionare le opere. Infine, alcuni vendors, hanno addirittura proposto le prime offerte “online only” ovvero senza la presenza di un’asta, anticipando un primo processo di disintermediazione. Sebbene la crescita del canale online non abbia completamente assorbito le perdite relative al canale fisico, ha sicuramente mostrato le potenzialità future del digitale nel mercato dell'arte.
A questa realtà in rapido cambiamento si affianca quella delle gallerie d’arte, storicamente l’intermediario principale del mercato ma anche il più tradizionalista. Già prima della pandemia queste manifestavano una scarsa tendenza all’innovazione e una bassa crescita; si pensi nel 2017 secondo l’Art Market Report: Online Focus di TEFAF circa il 40% delle gallerie operava esclusivamente offline. Sempre a tale data, il 30% delle Gallerie operava in perdita. Il 2020 non ha fatto altro che peggiorare la situazione. Le gallerie infatti, utilizzano come canale principale di vendita le fiere, per definizione un canale fisico. Delle fiere d’arte previste per il 2020 solo il 37% si è svolto normalmente, mentre per il 61%, l’unica soluzione è stata la cancellazione. Solo il 2% delle fiere ha optato per un evento ibrido o alternativo, dato in forte contrapposizione con quelle aste che hanno saputo dare un forte impulso al canale ibrido.
Se questo è il quadro con riferimento al lato offerta e intermediazione, sono avvenuti dei cambiamenti anche nel lato domanda. L’aumento della popolazione “Ultra high Net Worth” (UHNWI) a livello globale (in particolare in USA e Cina) ha contribuito alla maturazione del mercato, sostenendo la domanda e quindi le valutazioni. A ciò si collega il fatto che oggi, l’arte, non rappresenta più esclusivamente un bene di cui usufruire per il proprio piacere personale, ma sta divenendo sempre più un asset class apprezzata da parte di investitori facoltosi. Le motivazioni sono principalmente da ricondurre alla forte decorrelazione rispetto ai public markets (e addirittura verso gli altri asset alternativi) oltre che alle buone performance se rapportate alla bassa volatilità dell’asset class. Come si può notare dalla figura 2, questi benefici valgono per indicatori del mercato generale come l'Artprice Global. Indici più specifici come l'Artprice 100, che replica l'andamento del prezzo delle opere dei 100 maggiori artisti al mondo, hanno una volatilità più elevata e una correlazione nettamente maggiore con l'azionario ma in cambio permettono rendimenti tendenzialmente più consistenti.
Il risultato complessivo di questi trend è che, secondo il principale studio in materia, realizzato annualmente da Art Basel e UBS (“The Art Basel and UBS Global Art Market Report”) nel decennio compreso tra il 2009 e il 2019, le transazioni in opere d’arte sono incrementate del 62% e il loro volume globale ha raggiunto la soglia di $64,1 miliardi. I tre mercati con i maggiori volumi di scambio sono gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Cina, e nonostante abbiano subito un calo di vendite nel 2020, continuano a generare l’82% delle vendite d’arte globali.
Il mercato potenziale globale, inteso come la capitalizzazione di mercato delle opere in mano a privati, è però di gran lunga maggiore; le stime variano da 1600 miliardi di dollari per le più conservative fino a 3500 miliardi di dollari per le più ottimistiche. (“Why should art be considered an Asset class?” Deloitte Luxembourg (2015) )
La forbice tra il mercato totale e i volumi di scambio può essere ricondotta principalmente a due fattori:
- non tutti gli acquirenti di opere d’arte sono investitori, bensì possono dei meri appassionati che non intendono vendere l’opera nel breve termine.
- più rilevante ai fini del nostro ragionamento, vi è senz’altro un mancato incontro tra domanda e offerta per via dei rischi che l’investimento in opere d’arte comporta. Tra i principali citiamo problemi di autenticazione e provenienza, manipolazione dei prezzi, conflitti di interesse e mancanza di trasparenza, costi elevati, incertezza della valutazione e trend di breve durata, bassa liquidabilità dell’investimento.
Perché il mercato dell’arte si sviluppi e raggiunga il proprio massimo potenziale, è dunque necessario trovare delle soluzioni che permettano di eliminare o ridurre queste criticità. Proprio la tokenizzazione offre soluzioni concrete ed efficaci per quasi tutti i rischi citati.
La tokenizzazione
La “tokenizzazione” è un processo tramite il quale un asset o un diritto verso un bene (anche intangibile) viene convertito in un token digitale registrato su una blockchain.
La blockchain è una sorta di registro digitale nel quali le informazioni sono raggruppate in “blocchi” ordinati cronologicamente e collegati tra loro mediante l’uso della crittografia. Questa struttura è condivisa e immutabile. Condivisa nel senso che si tratta di un registro pubblico e trasparente, in cui ognuno può accedere ai dati iscritti. Immutabile nel senso che, una volta scritti, i dati non possono essere retroattivamente alterati.
Una differenza chiave tra la blockchain e un qualsiasi altro database digitale è la sua decentralizzazione. Non esiste uno storage in un luogo specifico delle informazioni scritte nella blockchain e non esiste alcuna autorità centrale che la controlli. Ogni soggetto ha una copia delle informazioni contenute nella blockchain e le transazioni vengono approvate collettivamente tramite l’utilizzo di programmi specifici. Questo fattore è alla base della sicurezza intrinseca delle blockchain.
Attraverso questa tecnologia è quindi possibile convertire la proprietà relativa a un asset in “gettoni digitali” iscritti all’interno di una blockchain come singoli blocchi di informazioni. Questi “gettoni” vengono chiamati NFT (“Non-fungible token”). Si tratta di token non fungibili, ovvero non reciprocamente scambiabili al contrario di altri asset digitali come le criptovalute. Un certo NFT è unico e dunque non è direttamente comparabile con un altro NFT.
Alcuni vantaggi fondamentali della tokenizzazione, derivanti dalla tecnologia blockchain, sono:
- tracciabilità storica completa delle transazioni relative all’asset. Di riflesso ciò offre una garanzia sulla provenienza e l’autenticità dell’opera e consente una trasparenza assoluta con riferimento al possessore dell’opera in ogni momento storico.
- Possibilità di frazionare la proprietà dell’asset. Ciò consente l’accesso a investimenti in arte, in precedenza riservata esclusivamente ad investitori UHNWI, ad individui con patrimoni minori. Permette inoltre orizzonti di investimento più brevi.
- Eliminazione della necessità di intermediari quali le gallerie d’arte o le società d’aste. Il token relativo all’asset, infatti, viene scambiato direttamente tra individui su un exchange. Questo permette minori costi, maggiore liquidità e conseguentemente lo sviluppo di un mercato secondario maggiore
La tokenization applicata all’arte: la visione di Niccolò Filippo Veneri Savoia
Come ritiene che la blockchain e la tokenizzazione possa migliorare il mercato dell’arte? Quali limiti, che caratterizzano il mercato dell’arte, questa tecnologia può superare (conflitti di interesse, mancanza di trasparenza, manipolazione dei prezzi etc.)?
La blockchain, tecnologia strettamente collegata al concetto di trasparenza, è uno strumento straordinario per contrastare l’opacità spesso presente nel mercato dell’arte, favorendo conoscenza e accessibilità a documenti, informazioni e dati, permettendo così una maggiore fruizione, e un maggior controllo, da parte di un pubblico più vasto.
Un altro aspetto tecnologico molto importante è lo smart contract, attraverso il quale è possibile tokenizzare un asset, in questo caso l’opera d’arte: sia suddividendo l'opera in piccole frazioni, sia creando prodotti finanziari digitali legati all’opera d’arte, tutto questo in modo semplice, veloce e sicuro.
Queste soluzioni tecnologiche riducono inoltre le alterazioni e le discrepanze tra il valore dell’opera e il prezzo di mercato, riducendo le manipolazioni dei prezzi.
Ritiene che la percezione dell’arte come asset class dopo la tokenizzazione abbia acquisito una maggiore visibilità e una maggiore accessibilità da parte degli investitori all’interno degli alternativi?
Siamo ancora all’inizio; è un processo in divenire, ancora in fase di studio, che però in questi anni ha già offerto spunti e discussioni rilevanti che hanno coinvolto diversi soggetti. Già in questa fase si denota un notevole interesse per la possibilità di investire in modo nuovo e sicuro in un asset class che ha dei rendimenti molto positivi.
Le ragioni che spingono l’investitore retail e l’istituzionale sono le stesse: è un asset su cui diversificare. L'investitore istituzionale agisce più a medio-lungo termine, mentre l’investitore retail, come può essere il crypto-investor o il trader, può considerare questo asset anche come attività da trading nel breve periodo.
Vista la crescente tendenza alla tokenizzazione e alla popolarità dei crypto assets durante la crisi pandemica, ha percepito un incremento di players e della clientela all’interno dell’asset class dell’arte?
La situazione pandemica ha sicuramente posto le attenzioni su questi temi ed accelerato certi processi velocizzando l’adozione di strumenti digitali in tutti i mercati.
A causa delle limitazioni, la maggior parte delle persone ha avuto più tempo, motivazioni ed esigenze per informarsi e comprendere le innovazioni in ambito tecnologico-digitale.
In concomitanza della crisi pandemica si è verificata una crisi economica, tutt’ora presente, durante la quale si cercano i cosiddetti “recession proof asset”, e l’arte è sicuramente uno di questi.
Infine, la pandemia nel mercato dell’arte ha causato una grande mancanza di liquidità da parte degli operatori che non hanno potuto svolgere le loro consuete attività (fiere, mostre, ecc…) portando ad un crescente bisogno di nuove soluzioni. Credo che trattare questo asset class in modo finanziario sia la soluzione ideale per entrambe le parti: da un lato i proprietari di opere d’arte possono finalmente accedere a nuova liquidità e nuovi investitori, dall’altra parte investitori di ogni genere possono finalmente diversificare in arte in modo semplice e sicuro.
Secondo lei l’enorme popolarità acquisita dagli NFT non rischia di impattare negativamente la percezione che il pubblico ha sull’arte tokenizzata?
Look Lateral e Fimart sono stati fra i primi al mondo a lavorare sul concetto degli NFT sin dal 2016. Onestamente non mi aspettavo un'esplosione simile e l’hype attorno agli NFT non sempre è giustificato. Vi spiego perchè.
Una prima categoria di NFT è relativa alle opere d’arte che nascono digitali, appunto su NFT, cioè siamo di fronte ad un’opera d’arte che al posto della tela o carta ha come supporto questo mezzo digitale. In questo caso l’NFT diventa a tutti gli effetti un nuovo media, che suscita maggior interesse dal punto di vista curatoriale più che finanziario. A questo proposito mi viene difficile giustificare prezzi elevati per artisti che nessun curatore o museo ha mai tenuto in considerazione e pertanto l’hype della tecnologia può falsare il reale valore dell’opera.
Una seconda categoria di NFT riguarda la rappresentazione digitale di un'opera d’arte fisica già esistente. In questo caso l’NFT è ancora difficilmente fruibile in quanto non ci sono dei supporti digitali adeguati che ne consentono il pieno godimento, o almeno commisurato al prezzo spesso troppo elevato del NFT.
La terza categoria è quella che ritengo più interessante e su cui lavoriamo da tempo. Si tratta di NFT che attribuiscono, ad un soggetto, particolari diritti (patrimoniali e non) o azioni connesse ad opere d’arte. Per esempio, a fronte di una tokenizzazione di un bene, un token che ha il diritto di possesso del bene reale o che concede di pagare o ricevere i dividendi. In sintesi, gli NFT sono strumenti, utili strumenti. Ma il valore sta sempre nel sottostante.
Conclusioni
Come visto, il mercato dell'arte ha conosciuto uno sviluppo negli ultimi anni, dovuto sia alla crescita della domanda che all'innovazione tecnologica. L’investimento in arte, d'altro canto, risulta potenzialmente benefico in un portafoglio, per via della sua decorrelazione dalle altre asset class oltre che alla sua bassa volatilità. Attualmente, però, esso risulta ancora appannaggio di pochi UHNWI. La tokenizzazione e la tecnologia blockchain promettono però una radicale riduzione dei limiti e dei rischi legate all’investimento in opere d’arte, rendendo il mercato accessibile a un pubblico molto più ampio.
Le informazioni contenuto nel seguente documento non costituiscono sollecitazione al pubblico risparmio e non sono volte a promuovere alcuna forma di investimento o commercio, né a promuovere o collocare strumenti finanziari o servizi di investimento o prodotti/servizi bancari/finanziari
La crescita e lo sviluppo del Private Debt a seguito della crisi finanziaria globale
Un confronto con Clement Fuzeau, Chief Marketing Officer presso Katch Investment Group
Private Debt: caratteristiche e peculiarità
Il Private Debt è una tipologia di asset class alternativa che appartiene alla macrocategoria dei Private Markets. Con "Private Debt" si fa riferimento a tutti gli strumenti finanziari di natura obbligazionaria emessi da società non quotate al fine di reperire capitali. Infatti, rispetto alle società quotate, che possono finanziarsi in maniera agevole tramite l’emissione di obbligazioni e azioni in mercati regolamentati, le società non quotate devono tipicamente ricorrere a canali di finanziamento alternativi.
Anche se il Private Debt si può presentare in molte forme diverse, nella maggior parte dei casi, coinvolge soggetti diversi dalle banche, come i fondi di investimento, che offrono finanziamenti società non quotate o acquistano titoli rappresentativi del loro debito sul mercato secondario. Si tratta di una classe di attività che permette di ottenere un beneficio ad entrambe le parti coinvolte: investitori e debitori. Gli investitori sono in grado di ottenere tassi d'interesse maggiori. I debitori ottengono capitale in meno tempo e senza i rigidi covenant che vengono richiesti dalle banche.
Nel periodo precedente al 2008, il Private Debt era considerato una classe di attività non-core nel portafoglio del tipico investitore istituzionale; infatti, la maggior parte dei finanziamenti alle imprese era originata dalle banche.
Ci sono stati due fattori principali che hanno stimolato l'espansione del mercato del Private Debt:
- la direttiva IV di Basilea II, con la quale le autorità di vigilanza hanno introdotto requisiti minimi di capitale per le banche, incentivandole ad abbandonare gli investimenti in prestito rischiosi (come quelli alle società non quotate) per rafforzare i loro bilanci.
- Il quantitative easing, un programma di politica monetaria attuato dalle banche centrali. Queste hanno acquistato titoli di stato per abbassarne i tassi e stimolare l’economia. Il processo ha portato di riflesso a un aumento del prezzo delle obbligazioni, spingendo gli investitori a cercare migliori rendimenti in attività non tradizionali.
Di conseguenza, gli attivi in gestione (AUM) del Private Debt sono cresciuti da 240 miliardi di dollari alla fine del 2010 a 900 miliardi di dollari nel 2021. Uno studio di Preqin prevede che il volume del Private Debt a livello mondiale aumenterà ulteriormente fino a oltre 1.400 miliardi di dollari nel 2025.
A novembre 2021, il Private Debt risulta la terza asset class nella macrocategoria dei Private Markets, dopo il Private Equity e l'immobiliare.
Tipologie di Private Debt
Il Private Debt, è un asset class che offre opportunità di investimento ad alto rendimento ed illiquide che possono essere così classificate:
- Direct lending: prestiti senior e junior erogati direttamente alle piccole medie imprese senza l’intervento della banca.
- Special situation: prestiti erogati a società in bancarotta o prossime alla stessa.
- Fund of funds: Fondi che investono in altri fondi di Private Debt permettendo una maggior diversificazione.
- Venture debt: tipologia di finanziamento diretto che viene fornita a start-up o imprese di nuova costituzione.
- Distressed debt: titoli di società o enti governativi che hanno difficoltà finanziarie o operative, inadempienze o sono in bancarotta.
- Mezzanine: tipologia difinanziamento intermedia tra i mezzi propri (equity) e quelli di terzi (debito). È una forma di finanziamento subordinata rispetto agli altri prestiti, ma privilegiata rispetto alle azioni ordinarie.
Private Debt: i mega trends
Secondo uno studio di Preqin i macro-trend futuri che caratterizzeranno il mercato del Private Debt sono:
- Una crescente allocazione del portafoglio di investimenti alternativi:i bassi tassi di interesse, incentivano sempre più gli investitori ad investire una quota cospicua del loro patrimonio in asset class alternative.
- La concentrazione di capitale nelle mani dei grandi fondi, in quanto gli investitori ricercano gestori sempre più affermati.
- L’ascesa dei Mega Deal: l'aumento della concorrenza ha portato a una maggiore proporzione dei mega deal (valutati a più di 1 miliardo di dollari) nel mercato del private debt.
- Spread sempre più ampi: è probabile che lo spread sulle obbligazioni societarie ad alto rendimento aumenti in futuro, rendendo il private debt un investimento sempre più attraente per gli investitori.
- Preferenza verso Investimenti in ESG (“Environmental Social and Governance”):gli investitori nel tempo privilegeranno in maniera sempre maggiore gli investimenti che rispettano requisiti ESG rispetto a quelli tradizionali.
Come è cambiato il mercato del Private Debt dopo la crisi del 2008 e l’implementazione di Basilea II e III: la visione di Clement Fuzeau
Con la crisi del 2008, la struttura dei mercati finanziari è cambiata profondamente. Crede che il mercato del Private Debt abbia saputo sfruttare il cambiamento dei requisiti legali delle banche e delle forme tradizionali di finanziamento? Ha intravisto un cambiamento nelle dimensioni dei ticket investiti o nelle differenti categorie di investimento all’interno del Private Debt?
Dal 2008, lo scenario dell’attività creditizia è cambiato molto e il Private Debt come asset class ha beneficiato considerevolmente delle nuove normative, le quali hanno colpito duramente le banche nel loro tradizionale ruolo di intermediari finanziari. L'introduzione di Basilea III ha portato a maggiori requisiti con riferimento alle riserve di capitale, il Dodd Franck Act ha aumentato notevolmente i costi di conformità delle banche e la “Volcker rule” ha limitato la capacità delle banche di assumere rischi. Imponendo vincoli stringenti all’attività bancaria, le autorità hanno spinto le banche a rinunciare alla maggior parte della quota di mercato relativa ai prestiti concessi alle piccole e medie imprese, in quanto le entrate emesse da questa attività non avrebbero compensato il loro costo. Tale cambiamento ha generato opportunità per i finanziatori privati e ciò di riflesso ha dato origine a nuovi fondi di private lending dedicati ai prestiti per le PMI.
L’interesse degli investitori verso il Private Debt ha subito a una crescita esponenziale; ciò è dovuto sia alla novità dell’asset class stessa per la maggior parte degli investitori, sia alle scarse performance delle asset class tradizionali. Infatti, i grandi attori come Blackrock, Apollo e KKR, così come investitori più piccoli, hanno aumentato la loro esposizione agli investimenti alternativi e al Private Debt per ottenere un rendimento alpha positivo.
Ci sono aree all'interno del Private Debt, come le strategie di senior secure lending e di bridge lending, dove il profilo di rischio degli investimenti è principalmente legato al collaterale reso disponibile dal debitore. Infatti, dato che la maggior parte degli investimenti di Private Debt sono strutturati come prestiti, il rischio principale è un potenziale default del debitore. In tali circostanze, il finanziatore sarebbe costretto a sequestrare il collaterale e rivenderlo su un mercato ad asta per recuperare il capitale investito. In altre parole, il profilo di rischio è principalmente definito alle capacità del creditore di valutare correttamente il valore del collaterale e la sua capacità di rivenderlo al giusto prezzo.
All’interno della macro-asset class del Private Debt in quale subasset class (factoring, trade finance, bridge loran, credit opportunities) avete intravisto maggiori opportunità di crescita e perché?
Il Trade Finance è la sub-asset class ritenuta meno attraente da parte degli investitori in ragione dei suoi rendimenti relativamente bassi. A nostro avviso, la sottoclasse che ha ottenuto una crescita più rapida è il Bridge Lending (“finanziamento ponte”). Il Bridge Lending è una strategia che può essere facilmente compresa dagli investitori e che permette di ottenere rendimenti stabili e consistenti nel tempo, godendo allo stesso tempo di un più basso livello di rischio. I Bridge lending sono strutturati come dei prestiti temporanei, nei quali gli asset manager forniscono un prestito agli sviluppatori immobiliari per progetti di ristrutturazione parziale o per acquisizioni di proprietà, fino a quando quest’ultimi non sono in grado di assicurarsi finanziamenti a lungo termine più economici dalle banche e/o di vendere la proprietà. Questi progetti spesso sono accompagnati da solide garanzie. È importante concentrarsi sui mercati ed aree dove è semplice espropriare il collaterale del prestito, se necessario, e dove c'è una forte domanda, in modo che i beni possano essere rivenduti rapidamente vicino al valore di mercato.
Andando verso la fine della pandemia Covid-19, abbiamo visto una forte ripresa della domanda di bridge loans da parte degli sviluppatori immobiliari che sono ora disposti a intraprendere nuovi progetti. Essendoci un aumento della domanda di nuovi prestiti, ma nessun reale aumento dell'offerta degli stessi, crediamo che ciò condurrà a deals di maggiore qualità e rendimenti più elevati, che dovrebbero permettere agli asset managers di fornire rendimenti superiori e attrarre più investitori in questa asset class.
Crede che la crisi da pandemia covid abbia portato ad una trasformazione nel settore del Private Debt? Pensa che ci sia stato un aumento dei cosiddetti fondi opportunistici? O che al contrario il Private Debt abbia svolto un ruolo di supporto nei confronti delle PMI in difficoltà?
Più che una trasformazione nel settore del Private Debt, crediamo che Covid-19 abbia messo in luce la qualità degli asset manager e le loro capacità di gestire al meglio le loro strategia anche in condizioni di stress. In effetti, abbiamo visto molti fondi di private debt andare in difficoltà finanziaria a causa di accordi di scarsa qualità che hanno finanziato, e di scarse valutazioni delle garanzie a sostegno dei loro prestiti. D'altra parte, i gestori di qualità sono stati in grado di spiccare, fornendo rendimenti stabili e costanti, dimostrando la capacità delle loro strategie di resistere a condizioni di stress.
Come pensa che si evolverà il mercato nei prossimi anni? Ci saranno secondo lei delle inversioni di tendenza rispetto al presente?
Non crediamo ci sia alcuna possibilità di inversione del trend attuale. I fondi di Private Debt sono emersi in seguito all'implementazione di regolamentazioni più severe per il settore bancario che non si prevede saranno rimosse o attenuate. Anzi, crediamo che nel tempo i regolatori potrebbero implementare ulteriori normative che limiterebbero ulteriormente la capacità delle banche di concedere prestiti alle imprese, il che genererebbe in ultima analisi una ulteriore crescita per i gestori dei fondi di Private Debt.
Le informazioni contenuto nel seguente articolo non costituiscono sollecitazione al pubblico risparmio e non sono volte a promuovere alcuna forma di investimento o commercio, né a promuovere o collocare strumenti finanziari o servizi di investimento o prodotti/servizi bancari/finanziari
Private Equity Secondario: fondi di liquidità
Un confronto con Edoardo Levy, Founder di BZH Capital Partners
Il contesto di mercato
In un periodo di tassi bassi e valutazioni elevate, gli investimenti alternativi, ed in particolare i mercati privati (e.g. private debt, private equity, venture capital) rimangono un porto sicuro, il giusto bilancio tra la ricerca di extra rendimento e la necessità di contenere i rischi; tuttavia, il ciclo espansivo sta volgendo al termine e questo inevitabilmente impatta le aspettative future. Inoltre, le valutazioni del private equity, dopo anni di ottime performance, sono piuttosto elevate, lasciando presagire ritorni futuri più bassi e durate degli investimenti più lunghi.
Nel private debt, il progressivo allentamento delle condizioni richieste per la concessione dei mutui ha reso l’esposizione a certe tipologie di debito e classi di investitori nettamente più rischiosa: è giusto esporsi a queste classi di attivi ma si deve fare con attenzione e consapevolezza. In uno scenario come quello appena descritto, il private equity secondario può rappresentare un ideale compromesso tra la necessita di incrementare i rendimenti e quella di contenere il livello di rischio.
Il private equity secondario: caratteristiche e peculiarità
È ormai ben sviluppato un segmento del mercato di private equity i cui operatori, i cosiddetti “secondary private equity funds”, si sono specializzati nell'investimento in quote di fondi di private equity, o in portafogli di singole attività detenute dagli stessi. Un fondo di private equity secondario è un fondo di fondi dove il gestore acquista partecipazioni in private equity chiusi anni prima da investitori che, per varie ragioni, decidono di uscire anticipatamente.
La vendita delle quote di fondi sul mercato secondario si rende necessaria tipicamente per aggiustamenti dell'asset allocation degli investitori, per ridurre il numero di relazioni con i general partners o per necessità di funding del portafoglio alternativo. La dimensione del mercato secondario ha ormai raggiunto una grandezza ragguardevole, con asset under management intorno ai 300 miliardi di dollari alla fine del 2020. La liquidità disponibile a metà del 2020, il cosiddetto dry powder del secondario, era di 125 miliardi di dollari.
Fonte: “private equity: la prospettiva del secondario”, Oddo BHF Asset Management.
La vendita delle quote di fondi sul mercato secondario si rende necessaria tipicamente per aggiustamenti dell'asset allocation degli investitori, per ridurre il numero di relazioni con i general partners o per necessità di funding del portafoglio alternativo. La dimensione del mercato secondario ha ormai raggiunto una grandezza ragguardevole, con asset under management intorno ai 300 miliardi di dollari alla fine del 2020. La liquidità disponibile a metà del 2020, il cosiddetto dry powder del secondario, era di 125 miliardi di dollari.
Queste sono risorse effettivamente disponibili per gli investitori del mercato primario del private equity, nel caso essi decidano di disinvestire prima della liquidazione naturale del loro investimento primario. Tutto ciò contribuisce a una crescita molto elevata del mercato secondario. I fondi di secondario, ovvero i general partner che operano come provider di liquidità del mercato del private equity si sono evoluti da strutture assimilabili ai fondi di fondi (acquisiti successivamente al loro closing) a fondi con strategie di investimento complesse e diversificate. Anche gli interlocutori dei fondi stessi si sono evoluti, passando da limited partner (ovvero gli investitori dei fondi primari) sempre più frequentemente a general partner dei fondi primari.
Alcuni dei motivi legati all’aumento della popolarità dell’utilizzo del mercato secondario includono:
- Riduzione della durata dell’investimento
- Alta diversificazione: la possibilità di investire in più fondi permette di ottenere un portafoglio maggiormente diversificato per gestori, anni di lancio, geografie, settori industriali etc.
- Visibilità sugli investimenti: un fondo di secondario, acquistando le partecipazioni in fondi che hanno già (o quasi) completato il periodo di investimento, permette di avere una visione chiara sulle società target di investimento riducendo così il fattore di incertezza.
- Distribuzioni più ravvicinate: in un fondo di private equity tradizionale gli investitori solitamente ricevono le distribuzioni a partire, e non prima, del quarto o quinto anno. In un fondo secondario, le distribuzioni sono molto più ravvicinate andando ad abbattere la J-curve.
Grazie alle sue caratteristiche, il private equity secondario è particolarmente indicato a chi si avvicina per la prima volta agli asset illiquidi; consentendo infatti di investire anche quote relativamente modeste, tipiche di chi inizia ma, godendo comunque di una elevata diversificazione. Inoltre, permette di puntare ai ritorni tipici del private equity (considerato un profilo di rischio e di volatilità più contenuto), spostando dunque verso l’alto la frontiera efficiente
Il private equity secondario: la visione di Edoardo Levy
Ritiene possano esserci degli svantaggi nell’esposizione e nell’investimento su fondi di private equity secondario? Quale dovrebbe essere l’approccio di investimento di un LP in tali fondi?
I fondi di secondario di private equity sono uno strumento di diversificazione molto importante all’interno del portfolio management di investitori sia istituzionali, e sempre di più, non istituzionali.
Tramite un fondo di private equity secondario l’investitore è in grado di costruire una esposizione ben diversificata, con maturità più avanzata rispetto ad un investimento tradizionale, e quindi con maggiore protezione del down side risk.
Un investitore potrebbe quindi analizzare l’investimento in tali strumenti in base alle qualità principali di un fondo di private equity secondario e quindi focalizzandosi su:
- Profilo di maturità;
- Diversificazione dal punto di vista geografico, di settori, di strategie e gestori;
- Livello di sconto rispetto al NAV degli investimenti;
Tali fattori sono chiave nella comprensione del profilo economico dell’investimento sia in termini di aspettativa di distribuzioni ravvicinate nel tempo che dell’aspettativa di crescita del NAV nel tempo. Rispondendo alla domanda iniziale, se non altro vedo un vantaggio per l’investitore nell’aggiungere tali esposizioni in portafoglio, ancora in ottica di diversificazione e di creazione di un profilo distributivo più stabile nel tempo.
Dal punto di vista dei secondaries, nella Sua esperienza dal lato pre-IPO (Tech in questo caso), come ha visto cambiare l’interesse tra i diversi tipi di investitori?
Il mondo del tech pre-IPO è sicuramente in forte evoluzione. Specialmente nel mondo post Covid-19, l’incredibile ammontare di capitale disponibile combinato con bassi tassi di interesse e ritorni relativamente bassi di asset classes tradizionali, stanno creando un vuoto che il mercato normalmente agisce tempestivamente per colmare.
I tech pre-IPO sono tipicamente compagnie “late stage” focalizzate su “disrupting technologies” in grado di cambiare lo status quo di mercati, abitudini, prodotti che siamo stati abituati ad acquistare in una certa maniera tradizionalmente. Tali compagnie tendono ad avere valutazioni oltre il $1miliardo (Unicorni) e a volte ben oltre i $10 miliardi (Decacorni). Una combinazione di fattori mediatici, di disponibilità di capitali ingenti e di fattori macroeconomici stanno spingendo sempre più capitale verso questo tipo di investimenti. Non solo più quindi Venture Capital, ma sempre di più Hedge Funds, Fondi istituzionali, asset e wealth managers, family offices, fino agli HNWI sono coloro che si sono coinvolti direttamente con questa asset class.
I round di finanziamento pre-IPO stanno diventando addirittura forse troppo grandi per i tradizionali fondi VC, che si vedono nella scomoda posizione di doversi ritagliare uno spazio a stadi ancora più iniziali di seed e pre-seed per poter continuare a raggiungere certi traguardi di rendimento. Secondo noi, l’interesse di investitori meno istituzionali continuerà a crescere dando vita così a nuovi strumenti di investimento, ma anche a nuove strutture in grado di facilitare l’accesso a tali opportunità. Insomma, una vera e propria democratizzazione dei private markets è in pieno sviluppo sotto i nostri occhi.
Crede che il secondary trading possa velocizzare il processo di listing vero e proprio per i diversi unicorni?
Indirettamente si, nel senso che il secondary trading permette di espandere la liquidità di tali prodotti, e quindi permette ad investitori di diversa tipologia di accedere a tali opportunità di investimento. Questo, a sua volta, permette di espandere liquidità disponibile a round di investimenti precedenti ad un IPO, che in cambio permette alle compagnie di raggiungere obiettivi economici importanti anticipando tempi tradizionalmente più lunghi, consentendo così alla compagnia di arrivare ad un exit/listing in maniera anticipata. Ovviamente, non dimentichiamo che il secondary trading è un fattore tecnico che può giocare contro l’investitore nel momento in cui l’elemento fondamentale dell’investimento venga a mancare. Visti i tempi in cui ci troviamo, il vento spinge nella direzione di risk taking ma, non bisogna mai dimenticarsi del passato stando attenti a bolle speculative.
Quale crede essere il metodo più efficiente per ottenere liquidità sul mercato secondario pre-IPO (Private Placement, Brokers, Share Repurchase o Secondary Share Sales)?
Ci sono diversi modi di relazionarsi al mercato secondario, e la soluzione più efficiente dipende anche dalla dimensione dell’investitore, e dalle aspettative sul pricing e tipo di processo di esecuzione.
Si sono sviluppate diverse piattaforme di investimento per investitori accreditati o professionali (specialmente negli US). Queste permettono accesso per denominazioni minime ridotte, e tramite strutture standard (ad esempio master SPVs nelle Cayman Islands). Ovviamente, l’altra faccia della medaglia è che sono strutture tipicamente più costose per l’investitore, anche se spesso e volentieri l’unica scelta sotto una certa soglia di investimento minimo.
Se guardiamo invece al mercato più istituzionale il trading rimane ancora in vecchio stile, ovvero, tramite brokers ed introduzioni dirette tra compratore e venditore.
L’accesso ad azioni private di unicorni o decacorni è spesso non standard, e presenta svariate problematiche da affrontare nell’accesso:
- se le azioni sono offerte con un direct transfer si pone il problema di “right of first refusal (ROFR)”, ovvero del diritto di prelazione offerto da tali compagnie ad investitori esistenti di poter comprare il blocco in vendita per primi. Tali processi tendono ad essere abbastanza lunghi (30 giorni), e possono risultare in un “niente di fatto” se il deal è troppo buono e qualche altro investitore esistente ha quindi la possibilità di esercitare l’opzione di prelazione. Oltre al ROFR si pone il problema dell’approvazione delle compagnie stesse che può anche questo richiedere del tempo (e a volte anche comportare costi di transazione aggiuntivi);
- se le azioni sono offerte tramite veicoli gestiti da terzi, le problematiche da affrontare sono diverse e legate ad una diligence legale, di base tipica di queste situazioni, che include anche profili di tassazione a seconda di dov’è basato l’investitore ed il veicolo.
Al momento, quindi, il mercato continua ad operare puramente over the counter e tramite una fitta rete di relazioni tra intermediari, buyers e sellers istituzionali e non.
Ciò detto, stiamo sicuramente assistendo a tanta innovazione nel mercato del trading secondario delle pre-IPO shares, con numerose iniziative nella direzione di borse che sarebbero in grado di ridurre costi di accesso e di standardizzare tali processi.
Cosa ne pensa del rapporto tra l’incremento delle quotazioni sui mercati azionari dei fondi private equity e l’impatto sulla loro classificazione sottostante di “investimenti alternativi”?
Il mondo dei fondi di private equity è in costante evoluzione grazie all’enorme impatto che questi stanno avendo sull’economia globale.
Il fondo di private equity tradizionale non è forse ancora visto alla stessa stregua di una compagnia come lo sono General Motors o FCA, allo stesso tempo, però, gli investitori trattano investimenti pubblici in tali fondi come alternativi e non tradizionali.
A nostro parere, il ruolo del fondo private equity nel mercato è ancora oggetto di studio e comprensione da parte di investitori in mercati pubblici. È forse normale che la classificazione ad investimento alternativo non sia in sintonia con l’innovazione che tali fondi stanno portando al mercato, aprendo, per esempio, il loro azionariato ad investitori abituati storicamente a ben altro.
L’incremento delle quotazioni dei fondi di private equity sono anche legate all’enorme attività a cui stiamo assistendo nel mercato dei capitali istituzionali, dove un numero sempre maggiori di fondi di investimento stanno acquistando direttamente blocchi di interessi in altri fondi di private equity.
Crediamo che nel tempo l’attività nel mercato dei capitali combinata con il direct listing porterà ad una maggiore comprensione di tali assets da parte di investitori nei mercati pubblici, combinata con una maggiore razionalizzazione delle valutazioni di tali fondi.
Le informazioni contenuto nel seguente articolo non costituiscono sollecitazione al pubblico risparmio e non sono volte a promuovere alcuna forma di investimento o commercio, né a promuovere o collocare strumenti finanziari o servizi di investimento o prodotti/servizi bancari/finanziari
Come diversificare il portafoglio finanziario con gli investimenti alternativi?
Un confronto con Andrea Braglia, consulente finanziario indipendente
Portafoglio multi-asset: attenuazione della volatilità e miglioramento dell’efficienza di portafoglio
I tassi di interesse sempre più vicini allo zero, talvolta negativi, e i mercati azionari estremamente volatili hanno appiattito notevolmente i rendimenti finanziari attesi dagli investitori, rendendo indispensabile l’esposizione ad asset class alternative, decorrelate rispetto a quelle tradizionali; gli alternatives (e.g. private equity, venture capital, real estate, risorse naturali, private debt) consentono di ottimizzare il rapporto rischio-rendimento del portfolio finanziario in quanto presentano una bassa correlazione con i tradizionali mercati quotati. In questo senso, l’aggiunta di alternatives, rende un portafoglio già diversificato più stabile e meno suscettibile alle incertezze di mercato. Infine, è stato confermato come questa tipologia di investimenti in media offra un ritorno maggiore rispetto alle tradizionali asset class.
Per contro, è importante sottolineare come queste tipologie di investimenti abbiano alcune caratteristiche non sempre accettabili e apprezzate dagli investitori; a titolo d’esempio, l’orizzonte temporale di queste asset class è più o meno lungo (in media 5-7 anni). Inoltre, la maggior parte degli investimenti alternativi ha come oggetto aziende non quotate; pertanto, la liquidabilità è ottenibile solo alla scadenza dello strumento finanziario. È proprio l’illiquidità una delle ragioni principali per cui molti investitori sono ancora restii ad allocare una determinata percentuale del patrimonio in alternative asset classes.
Vantaggi | Svantaggi |
Diversificazione | Potenziale illiquidità |
Volatilità molto contenuta | Size minima di ingresso mediamente elevata |
Rendimento medio atteso elevato | Orizzonte temporale d’investimento lungo |
Lo stato dell’arte dell’investimento in private markets e real assets: la visione di Andrea Braglia
C’è un’ampia varietà di strategie alternative sul mercato. Da parte degli investitori ritiene ci sia un vantaggio a mixare tali strategie e ad investire in maniera diversificata sugli alternatives?
Il vantaggio di mixare differenti strategie di investimento alternative è indubbio, da un punto di vista di:
- Scadenze e timing di investimento
- Rendimento e rischio
- Diversificazione di asset-manager
- Asset sottostanti e mercati di investimento
Inserire gli alternatives nel proprio portafoglio finanziario garantisce una migliore efficienza in termini di rapporto rischio/rendimento; tale efficienza può essere ulteriormente ottimizzata tramite l’impiego di differenti strategie alternative, che possono lavorare sinergicamente con le tradizionali asset class per ottenere il migliore risultato possibile finale.
In Italia, nonostante il grande lavoro di educazione finanziaria, il macrosettore degli investimenti alternativi è ancora visto con diffidenza e scetticismo. In questo senso, qual è, secondo lei, la ragione principale per cui questo tipo di investimento è ancora poco considerato?
La cultura finanziaria media degli investitori italiani è decisamente inferiore alla media europea e anglosassone: l’Italia, relativamente all’indice totale di alfabetizzazione finanziaria, è al 25° posto su un totale di 26 paesi; solo il 30% degli italiani, ha competenze di base in finanza, contro una media OCSE del 62%. Inoltre, il nostro sistema bancario nazionale non ha mai svolto alcun ruolo di formazione nei confronti dei clienti per quanto riguarda gli investimenti alternativi, che di fatto sono ancora poco conosciuti anche dagli stessi addetti ai lavori.
L’asset class alternativa utilizzata prevalentemente in Italia è ancora quella standard e strutturata in veicoli tradizionali, come i fondi di investimento, piuttosto che i club deal e gli Eltif, con grande attenzione alla parte commerciale, che deve per forza di cose remunerare tutti i player coinvolti lungo la filiera di produzione e distribuzione del prodotto finanziario, spesso a scapito dei rendimenti finali per il cliente.
Alcuni investitori ritengono che la complessità e l’illiquidità degli investimenti alternativi siano limitanti e che tali caratteristiche superino i loro vantaggi. Cosa ne pensa a riguardo?
Gli investitori, in realtà, non sono in grado di valutare correttamente queste variabili, perché non conoscono a sufficienza le caratteristiche degli alternatives: una volta che i pro e i contro sono stati illustrati in modo serio e professionale, molti di questi tabù cadono; detto questo, devo riconoscere che l’investitore medio italiano è sempre poco propenso a considerare investimenti con un orizzonte temporale lungo e sono certo che questa sia una questione caratteriale che deriva dalla nostra storia millenaria. A questo proposito, per rendere più consapevole il cliente finale, credo che sia molto utile fare degli esempi concreti di come l’asset class si sia comportata nel 2020, in pieno lockdown e di fronte a una delle crisi finanziarie peggiori della nostra storia: essere in grado di proteggere e garantire realmente gli investimenti del cliente è premiante rispetto agli aspetti di illiquidità e di complessità.
Da consulente finanziario, qual è stata la sua esperienza nel mondo degli alternatives? Ha riscontrato dei cambiamenti di atteggiamento da parte dei suoi clienti nei confronti di questi strumenti nel corso degli anni?
La mia esperienza di Consulente Finanziario Indipendente (iscritto ad apposito Albo nazionale) è stata ottima, dal momento che gli alternatives mi hanno permesso di proporre ai miei clienti delle soluzioni di investimento innovative e poco conosciute, quindi, con una value proposition unica, che hanno fin da subito catturato l’attenzione degli imprenditori, propensi a valutare nuovi progetti stimolanti. Certo non è stato semplice raccontare gli investimenti alternativi, spiegando cosa fossero e perché nessuno prima di me li avesse mai presi in considerazione; un po’ di diffidenza iniziale è da mettere in conto ma poi la storia e i fatti hanno dimostrato, numeri alla mano, che tutte le promesse iniziali sono state rispettate, a prescindere dal contesto economico-finanziario. Anche in Italia, seppure con un ritardo mostruoso, gli alternatives si faranno spazio, si faranno conoscere e rappresenteranno sempre di più un’asset class finanziaria importante ed indispensabile: il fatto che l’attuale punto di partenza sia pressoché zero renderà la crescita ancora più esponenziale.
Le informazioni contenuto nel seguente articolo non costituiscono sollecitazione al pubblico risparmio e non sono volte a promuovere alcuna forma di investimento o commercio, né a promuovere o collocare strumenti finanziari o servizi di investimento o prodotti/servizi bancari/finanziari